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Il virus non può fermare la musica. Confrontiamoci per trovare nuove idee

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Uno dei luoghi comuni più inflazionati recita: “È solo quando una cosa non ce l’hai più, che ne riconosci il valore”. L’emergenza Coronavirus ha legittimamente imposto una sospensione di tutte le iniziative musicali dal vivo. Da giorni mi interrogo sul significato etico e sociale dell’espressione “dal vivo”. Quando siamo al cellulare con un amico gli diciamo “approfondiremo il discorso di persona”; è inusuale invece dire “approfondiremo il discorso dal vivo”, ci verrebbe da sorridere, perché sembrerebbe che la telefonata si stia consumando all’ ”altro mondo”.

Se fossimo in macchina, in particolare se ci trovassimo nel traffico di Roma, e malauguratamente tamponassimo il veicolo in coda, uscirebbe da dietro il cespuglio il testimone X che griderebbe “ha ragione lui, l’ho visto di persona”; non esclamerebbe mai “l’ho visto dal vivo” perché è un’espressione sbagliata, non si usa. Invece, quando vai ad un concerto, torni a casa orgoglioso e ricco di emozioni, oppure deluso e svuotato, perché hai visto il tuo artista preferito “dal vivo”, non “di persona”. Essere “dal vivo” richiede un importante responsabilità, essere “di persona” anche, ma in maniera totalmente diversa.

Ritengo che la lingua italiana, con le sue sottili finezze, sia un qualcosa di magnifico. L’espressione “dal vivo”, nel suo utilizzo più corretto, è quasi esclusivamente riservata ad eventi di portata culturale, siano essi concerti, spettacoli teatrali, performance. È come se la lingua italiana avesse la sensibilità di separare l’ordinario dallo straordinario. Raccontare di aver visto “di persona” Anderson Paak, che imbarcava i suoi bagagli all’aeroporto, ha tutto un altro sapore rispetto a raccontare di aver assistito “dal vivo” a un suo concerto.

Un’artista nasce, cresce e muore ogni volta che dà espressione del suo estro, in un delicatissimo rapporto tra incontro-confronto-scontro con un pubblico, che si trova di fronte al suo idolo e vuole ridere, piangere, applaudire, arrabbiarsi, elogiare, criticare. Dunque, vuole vivere. Questo è obiettivamente riscontrabile in tutti i contesti dove è possibile ascoltare musica: centri sociali, club, discoteche, auditorium. Ogni persona che esce di casa per godere di buona musica live, non è in cerca solo di mero intrattenimento, ma di un’esperienza di vita. Da sempre, la musica è un elemento di fondamentale rilevanza sociale e azzarderei vitale per l’essere umano.

Ascoltare la musica da casa è diverso. È un’esperienza che rientra nell’ordinario, nell’intrattenimento. Attenzione: con questo non voglio dire che ascoltare una playlist su Spotify o un disco nello stereo non abbia senso, anzi! Ma il focus della mia riflessione verte su altro. La maggior parte delle persone quando ascoltano la musica nel loro appartamento, nel frattempo fanno altro. Non c’è un reale “impegno” per il quale si sceglie di uscire, prendere la macchina, fare la fila, attendere, commuoversi e applaudire, ovvero vivere “una mini-vita” con estrema intensità ed esperienza.

In questo periodo, e chissà ancora per quanto tempo, dobbiamo restare a casa. Quindi, mi chiedo: come possiamo “vivere con la musica” in questi giorni? È possibile applicare il concetto “dal vivo” anche restando nel nostro salotto? Sono lodevoli le iniziative on-line che stanno realizzando moltissimi musicisti: rapper che fanno dei “freestyle” per dissacrare la psicosi del momento, strumentisti che suonano di fronte a una webcam; grandi nomi che eseguono in diretta programmi di masterclass e i più organizzati che trasmettono in streaming “vere e proprie” esibizioni dal loro garage. Fantastico, ma non basta. Non basta perché la gente ha voglia di uscire sui balconi e cantare a squarciagola i brani del suo artista preferito. Non basta perché le persone hanno voglia di “vivere”.

La domanda che faccio a tutti i miei colleghi, professionisti del settore musicale, e ai miei “cugini” musicisti è la seguente: che ci inventiamo? Si, lo so, abbiamo avuto tutti gravi perdite economiche, ma dobbiamo accusare il colpo e andare avanti. Come? Approfittando dell’inattività per studiare e riflettere…ok, ma il pubblico? Quel pubblico che “vive” con noi e che in fin dei conti, diciamocelo, ci dà anche da mangiare, dove lo lasciamo? Lo accontentiamo con delle dirette Instagram? Noi vogliamo accontentarci con delle dirette Instagram? La rassegnazione non è costruttiva, la sperimentazione si…ecco questa sì!

Dobbiamo farci venire in mente delle idee per continuare a far musica “dal vivo” anche da casa, seppur questa volta la lingua italiana non ci sosterrà come negli esempi che ho citato poco fa. Dobbiamo farci venire in mente delle idee per far continuare a “vivere” gli artisti, il pubblico e il loro romantico rapporto d’ amore e odio. Questa è l’occasione per un progresso, come fu con il cinema! È possibile rendere la musica “viva”, cinematograficamente parlando, oppure può esserlo solo nelle sale da concerto?

Chi può sostenerci in questo? Tv? Radio? Stampa? Web?

Spremiamo le meningi, perché potremmo trovarci di fronte a un cambiamento rivoluzionario della fruizione della musica “dal vivo”, che non per forza riduca la nostra esperienza emotiva e culturale. Non affezioniamoci troppo alla nostra straordinaria abitudine di dover andare ad un palazzetto per assistere a un concerto. Creiamo un nuovo e necessario mercato, stimolante per operatori del business musicale e soprattutto per gli artisti. Come? Con quali soldi? Con quali mezzi tecnologici? Non sto scrivendo per portare una soluzione, ma per lanciare un appello affinché la nostra creatività non si arrenda. Organizziamo una tavola rotonda (telematica) e confrontiamoci.

Finora abbiamo dato troppo per scontato il significato più profondo della musica “dal vivo”, della socialità che produce e della necessità collettiva del fenomeno musicale. Oggi che questi elementi non ci sono più, ne capiamo la reale importanza, proprio come il luogo comune che citavo all’inizio del mio articolo. Adesso, che possiamo riflettere sull’arricchimento che un evento culturale può apportare alla vita di ognuno di noi, mi chiedo se davvero vogliamo rassegnarci al fatto che potremmo essere obbligati a “vivere a metà”.