In queste settimane stiamo assistendo a un fenomeno che sta generando un acceso e confuso dibattito: è giusto emarginare artisti e atleti russi da contesti culturali e sportivi occidentali? È giusto oscurare alcune delle più belle pagine della letteratura, dell’arte visiva e della musica perché appartenenti alla storia russa?
L’arcinota censura del corso su Dostoevskij del professor Paolo Nori all’Università Bicocca di Milano è stato il fiammifero che ha acceso il fuoco che sta divampando in studi televisivi e quotidiani. Il rischio più grosso che si corre è inciampare su banali generalizzazioni e aride prese di posizione, come se essere promotori di espressioni artistiche russe che appartengono al bagaglio culturale del mondo significasse essere a favore della guerra di Putin.
Personalmente, virerei il dibattito sulle modalità di individuazione e differenziazione tra ciò che è un contenuto artistico puro e ciò che è un contenuto artistico prestato alla propaganda di un sistema di idee. La creatività di un artista è chiaramente condizionata dal contesto in cui trova espressione, ma allo stesso tempo non ne è saldamente radicata. Altrimenti non sarebbe propriamente arte, bensì cronaca o nella peggiore delle ipotesi propaganda. Le forme artistiche sono grandi quando sono universalmente riconosciute, fuori dai limiti di spazio e tempo. Per questo motivo, appartengono a tutti! Quando vengono censurate si crea un danno innanzitutto alla comunità, prima che all’artista.
In questa riflessione mi vengono in mente il violoncellista Gabriele Geminiani, Primo Violoncello dell’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia e dell’Orchestra Mozart, e il pianista Monaldo Braconi, che in questo mese pubblicheranno il loro disco interamente dedicato alle opere di due compositori russi: la “Sonata in do maggiore opera 119” di Sergei Prokofiev e la “Sonata in re minore per violoncello e pianoforte opera 40” di Dmitri Shostakovich. Interpretare quelle che sono considerate oggi tra le più belle pagine della musica da camera è una scelta molto coraggiosa dato il periodo, che mi scatena la voglia di saperne di più su questi due autori. Monaldo Braconi ha trascorso diversi anni della sua vita in Russia e ne ha studiato la musica con grande passione.
Nella guida all’ascolto, che troveremo all’interno del disco, il maestro spiega che Prokofiev, definito «lo Chopin cosacco» per il suo pianismo aggressivo ed atletico, ebbe una notevole fama anche all’estero, soprattutto negli Stati Uniti. Shostakovich, considerato come l’esponente più brillante della musica sovietica sin dall’esecuzione della sua prima sinfonia, scritta come prova d’esame finale in conservatorio, nel 1926, vinse addirittura una menzione come pianista al Premio internazionale di Varsavia del 1927. Nel 1936, tuttavia – a proposito di censura – una terribile scintilla andò a cambiare radicalmente questo scenario: con un articolo anonimo sulla “Pravda” si bollava l’opera di Sostakovich “Lady Machbet del distretto di Mtsensk”, scritta nel 1934, come “disordine invece che musica […] crudo naturalismo anziché Realismo Socialista […] dissonante e confuso flusso di suoni”.
La terribile censura stalinista operata dal ministro della cultura Andreij Zdanov si scatenò contro molti compositori, accusati di lasciarsi ammaliare dalle tendenze occidentali che allontanavano l’arte musicale dalla tradizione marxista e dai dogmi del Realismo socialista – espressione coniata da Maksim Gorkij – che diventerà sinonimo di apologia del potere, con l’esaltazione della figura di Stalin e degli eroici sforzi per la costruzione del comunismo. La vita sotto la censura era opprimente: alcune opere musicali venivano bandite, altre dovevano subire un umiliante controllo operato da compositori di regime, gli stessi Shostakovich e, nella seconda fase della repressione, Prokofiev dovettero scrivere delle lettere di scuse per non aver seguito l’indirizzo del Partito, vivendo nel costante timore di vedere sè stessi o qualche familiare portato via dalla polizia. In questa situazione sia Shostakovich che, in seguito, Prokofiev dovettero “re-inventare” il proprio stile compositivo, pur mantenendo la loro tipica, marcata personalità musicale.
La musica da camera, in questa situazione, rappresentava un rifugio privilegiato per i compositori: in effetti, rispetto ad un’opera lirica o una grande composizione sinfonica, che richiamava grandi masse di pubblico e quindi era più soggetta a controlli e critiche soprattutto per i messaggi che poteva veicolare, i brani cameristici vivevano in un mondo più astratto, ristretto ed intimo, distanti com’erano dall’immenso clamore di un grande teatro o di una grande sala da concerto. Proprio per questa ragione potevano rappresentare una sorta di valvola di sfogo per gli autor, che potevano scrivere in maniera meno angosciata, liberi di esternare i propri stati d’animo e la propria vera personalità.
La testimonianza di Monaldo Braconi insegna quanto sia importante, soprattutto in questo periodo, andare più a fondo, scoprire cosa c’è dietro l’etichetta “cultura russa”. La pubblicazione del disco dedicato alla musica da camera – nello specifico alle sonate per violoncello e pianoforte – di Prokofiev e Shostakovich la considero una reazione artistica al confuso dibattito che descrivevo poc’anzi.
Oggi, riguardo al patrimonio artistico e culturale, bannare tutto ciò che si affianca alla Russia è errato e improduttivo, perché obbliga a censurare la conoscenza, come in questo caso, di due autori che hanno subito sulla propria pelle la repressione delle loro espressioni creative, e che spinti da un’esigenza di libertà hanno re-inventato il proprio stile. Conoscere quegli stessi autori russi è, da un lato, una fonte d’ispirazione per creare un nuovo modo di reagire al cinico soffocamento della libertà individuale e di pensiero che Putin sta imponendo con la sua politica; dall’altro, uno stimolo per l’Occidente a creare un dibattito culturale più accurato e approfondito.