Incertezza. Ansia per il futuro. Confusione. Queste sono solo alcune delle sensazioni che si percepiscono nella maggior parte delle persone che oggi vivono in Italia (e forse non solo), in particolare nei gruppi di giovani che si stanno lasciando alle spalle la spensieratezza dell’adolescenza e attendono l’alba dei loro 30 anni.
Mentre psicoanalisti e psichiatri riempiono le loro agende di neo-adulti che ancora non riescono a trovare il proprio ruolo nel mondo, la propria identità e dignità, lo Stato, inteso come organizzazione politica e giuridica di una comunità, non riesce a rispondere alle loro domande di valore, perdendo giorno dopo giorno il timone di questa contraddittoria e accelerata Società che subdolamente esige sempre il massimo della prestazione. Noi giovani, prelibata carne dei banchetti della campagna elettorale, siamo stati investiti dagli enormi TIR dell’emergenza sanitaria, della guerra e della crisi di governo, che sfrecciavano a 200 km/h proprio all’alba dei nostri 30 anni, quando in autostrada non c’era nessuno che potesse testimoniare la violenza dell’impatto. Abbiamo visto volatilizzarsi progetti, posti di lavoro, contratti, investimenti, anni di studio. Quel che rimane, appunto, è soltanto una sensazione di grande incertezza, che è la punta di un iceberg di un dolore più profondo che riusciamo a domare grazie all’analgesico del fare sempre e comunque qualcosa, del riempirsi le giornate, della fretta, del reinventarsi, dell’apparente ripresa, di una speranza che non ha solide basi su cui ergersi.
Non ho ancora sentito nessuno che vuole veramente dedicare il proprio tempo a discutere di questo dolore. Anzi, questo malessere generazionale viene schivato da promesse elettorali, da previsioni economiche di crescita, da un giorno tutto questo passerà. Sempre se ci dice bene. È un attimo sentirsi sbeffeggiati ed etichettati come deviati dalla donna che attualmente ha più consensi in Italia. Nessuno vuole fermarsi, un attimo soltanto, e analizzare approfonditamente questo dolore, vivisezionandolo in tutte le sue forme. Dove sono gli intellettuali? Non parlo di analisti politici o di virologi, ma di chi mette a disposizione della comunità le proprie riflessioni, proponendo nuove visioni finalizzate al miglioramento della qualità della vita con gli altri e con sé stessi. Ancora una volta, ci tocca fare un passo indietro nella storia e cercare l’ispirazione nelle personalità e nelle opere che hanno reso Grande la nostra cultura.
Franz Schubert fu un compositore austriaco che visse a cavallo tra il ‘700 e l’800, periodo storico-culturale che i manuali individuano come il ponte tra il Classicismo e il Romanticismo, due correnti che hanno investito l’intera sfera del sapere e dell’arte gettando le basi del Mondo Moderno e del suo sistema di valori. Non voglio dilungarmi sulla biografia e sul valore musicale delle opere di Schubert – non sono all’altezza di analisi storiche e musicologiche – piuttosto mi piacerebbe soffermarmi su alcuni aspetti della sua enigmatica figura, ancora attuale e oggetto di studio, che mi ha ispirato, dandomi una nuova chiave per leggere e affrontare la realtà. Franz non eccelleva certamente per bellezza e carisma. Era una persona umbratile che non si ritrovava in una società che affermava di perseguire i principi di progresso e riscatto umano, ma che in realtà era tesa alla mera ricerca del vantaggio privato (non c’è nessuna analogia con ciò che stiamo vivendo oggi vero?). A differenza dei suoi contemporanei, solo in pochi casi compose musica per concerti pubblici o rappresentazioni teatrali. Il più delle volte scriveva per gli amici di Vienna che si riunivano ad ascoltare le sue musiche, discutere di arte, musica e letteratura. Tali incontri presero il nome di Schubertiadi. Franz Schubert fu un artista che, come altri, venne veramente scoperto e valorizzato solo dopo la sua morte. Perché? Molte sono le ipotesi, poche le risposte certe.
Quel che è certo è che Schubert, come tutti i grandi del suo tempo, visse il proprio dolore – generazionale e fisico – sublimandolo in arte. Non volse la testa dall’altra parte, lo guardò attentamente, vivendolo in ogni sua manifestazione fino al sopraggiungere della sua morte prematura. Esattamente 200 anni fa, nel 1822, Franz Schubert si ammalò di sifilide. La terapia col mercurio alla quale si sottopose era un’autentica tortura che infliggeva dolori indicibili. Una volta assunto, il mercurio penetrava in tutto il corpo. Il malato doveva trattenersi per giorni in una stanza caldissima. Non gli si permetteva nemmeno di lavarsi. Fu proprio in questo lungo periodo di sofferenza che Schubert compose le opere che oggi sono considerate tra le più iconiche, come ad esempio: il quartetto “La Morte e La Fanciulla”, “l’Ottetto” (1824), il trio “Opera 100”, Il “Quintetto per Due Violoncelli “.
Fermarsi, accogliere il dolore, imparare a conoscerlo, a conviverci fino ad arrivare ad ingannarlo e a sconfiggerlo. È la forza reattiva che contraddistingue l’uomo in tempi di crisi. Una forza che non si può spiegare, ma solo cogliere spiritualmente attraverso la misteriosa potenza della Cultura.
Al Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma, dal 13 al 17 settembre si svolgeranno degli incontri divulgativi e dei concerti proprio dedicati a Schubert e a questo tema: riflessioni su come affrontare quest’attualità così incerta, attingendo dall’enorme eredità che filosofi, artisti e poeti ci hanno lasciato.
Probabilmente, per curare il malessere esistenziale di noi giovani potrebbe essere utile indicarci un luogo dove potersi fermare e arricchire la nostra anima offrendoci stimoli culturali, piuttosto che indicarci la strada dove poter correre più veloce degli altri… ma poi, degli altri chi?